- La leggenda del gallo
- Lo spirito cuffoletto
- La storia di Ciadenazo
- Il lago di Misurina
- L'orso di San Lucano
- La storia di Tudaio
- Valentin piccolo forseni'n
La Leggenda del Gallo
Quando il numero degli abitanti di Auronzo cominciò ad aumentare, fu necessario accrescere anche il numero degli animali che erano la fonte prima del loro sostentamento. Per tutte le mucche, le pecore e le capre non bastarono più i pascoli a valle, così la popolazione fu costretta a cercare sempre più lontano, sempre più in alto nuove distese erbose. A quei tempi, coloro che per primi usufruivano dei nuovi territori, ne divenivano possessori così per un lungo periodo tutto andò avanti tranquillamente. Poi, specialmente con i pastori di Dobbiaco, iniziarono le liti e i diverbi che durarono per secoli. Ognuno contrastava il diritto di proprietà all'altro e spesso sequestrava i capi di bestiame all'avversario. Soltanto dopo la metà del 1700 ebbero termine queste vertenze. Nella leggenda, che si mescola ai fatti storici, si racconta che. allo scopo di definire un limite tra i due comuni contendenti, si decise di mandare una donna auronzana a risalire a piedi la Valle dell’Ansiei verso Misurina ed una donna di Dobbiaco a percorrere la valle opposta del Rienza e del Popena, onde trovare un punto d'incontro tra le due e poni colà la pietra di confine. Due guardie di Dobbiaco furono messe a sorvegliare la donna di Auronzo e due guardie auronzane a vegliare la doblacese affinché non partissero anzitempo, cioè prima che il gallo annunciasse l'alba con il suo canto. L'astuta auronzana aveva fatto sedere i suoi due sorveglianti sulla panca, accanto al focolare, sono la quale c'era la stia dei polli. Il tepore della cucina e i due bicchierini di grappa che la donna aveva fatto loro ingoiare, avevano un po’ intorpidito i due. mentre lei. per tenersi ben desta, sferruzzava una calza. Assai prima che facesse chiaro, lei punzecchiò, con il ferro della calza il gallo che stava sotto la panca e questo si mise a cantare così forte da far scattare in piedi le guardie e la donna, mettendoli in marcia con largo anticipo ed ottenendo così un grande vantaggio. Durante il cammino i due guardiani scrutavano spesso l'orizzonte, certi di veder finalmente comparire la loro compaesana, ma il tempo passava e quella non si vedeva ancora. TI vantaggio fu tale che permise loro di incontrarla solo dopo oltrepassata Misurina con il suo lucente lago alpino e dopo la lunga discesa sino al Ponte della Marogna. Là avvenne l'incontro delle due donne e là fu posto il cippo di confine che pose fine alle liti. 11 gallo figura sugli stemmi di Auronzo e s'innalza in ferro battuto sulla cupola della Chiesa della Madonna delle Grazie, con i tre buchi sul petto per le tre punture provocate dalla donna auronzana.
Lo Spirito Cuffoletto
In Cadore viveva una volta un omino mattacchione che tutti chiamavano lo Spirito Cuffoletto. Non era cattivo, ma si divertiva a combinare guai al prossimo. A notte alta, quando tutti riposavano, lui andava nelle stalle a governare le mucche, riempiva la greppia di foraggio per udire il suono del grosso campanaccio che le bestie scuotevano brucando il fieno. Oppure si metteva a contare le pecore, facendole uscire dalla loro stalla e se per caso ne passava una zoppa o storpia, si metteva a ridere rumorosamente, spaventando le docili bestiole che si sparpagliavano nella notte. Pastori e proprietari di bestiame erano proprio arrabbiati. Non risparmiava le sue beffe neppure ai boscaioli: si trasformava in un grosso ceppo da ardere che il montanaro caricava sulla slitta e trainava faticosamente verso casa, ma poi se lo vedeva sparire sotto gli occhi mentre sentiva una voce canzonatoria che ripeteva "Te Tè l’èi fata, te l’èi fata!". Ed ancora all'alba, quando la vita del paese riprendeva il solito ritmo, lo Spirito Cuffoletto si presentava sotto forma di un gigante e con un piede appoggiato sul tetto di una casa e l'altro sulla casa di fronte, beffeggiava la gente spaventata, costretta a passare la strada sotto quell'insolito arco. La beffa più maligna, però era certamente quella di trasformarsi in un gomitolo di filo. Racconta la leggenda che allo Spirito Cuffoletto venne in mente un giorno di burlarsi della bruna Joana, una giovane e procace montanara, che tutti i giovanotti del paese corteggiavano. Joana civettava con tutti, senza dimostrare preferenze. Conosceva l'arte del sorriso e quella fossetta malandrina sulla guancia rosea era una tentazione per giovani e vecchi. Le donne ostentavano indifferenza, ma soffrivano in cuor loro d'invidia e gelosia. Dicevano che era una mal battezzata, che la madrina doveva aver recitato male il Credo per essere diventata così sfrontata e senza modestia. Di conseguenza la ritenevano amica delle Strie e d'accordo con loro quando queste scatenavano la tempesta sul magro raccolto. Qualcuno giurava addirittura di averla vista avviarsi verso il lago da Osto con una bacchetta sotto il braccio che poi sarebbe servita ad aiutare le Strie a battere sulle acque del lago per attirare piogge torrenziali e tempeste. Joana, come sapeva sorridere agli uomini, sapeva anche accettare ridendo le calunnie delle donne invidiose. Se ne andava incurante e continuava la sua opera di seduzione. Una bella domenica di maggio, al tramonto del sole, la ragazza passeggia lungo la strada principale del paese, ancheggiando e sorridendo, quando vede per terra un grosso gomitolo di filo. Veloce, s'inchina e lo raccoglie. Era di un bel rosso fiammante e filato con rara maestria. Felice se lo nasconde in seno, tra le pieghe del suo capace corsetto. Chissà quanti bei lavoretti avrebbe potuto eseguire con un filo così bello, forse anche un piccolo scialletto da mettersi sulle spalle. Che felice contrasto con il nero della sua chioma. Camminava sorridendo alle montagne, ai fiori e alle piante pensando all'invidia che avrebbe suscitato nelle sue rivali e immaginando gli occhi incantati degli uomini quando avrebbero visto lei, con i famosi orecchini a pendaglio della nonna, il corsetto di velluto nero e il rosso scialletto, dolcemente posto sulle spalle. Con questi felici pensieri continua la sua passeggiata domenicale. È quasi giunta alla piazzetta del paese, dove sostano a quell'ora i giovanotti, disposti a piccoli gruppi a chiacchierare e ad ammirare le ragazze di ritorno dal ve-spero, quando incomincia a sentire prima un lieve, piacevole solletico al seno, poi un solletico più insistente, tanto da rendersi insopportabile. Aveva quasi l'impressione che il gomitolo si spostasse qua e là, nei reconditi meandri del suo petto. Non potendone più, disturbata e curiosa, si ferma proprio dinanzi ai gruppi di giovani e, girandosi di schiena, si slaccia il corpetto. Improvvisamente dalla scollatura salta fuori un buffissimo ometto che altri non era che lo Spirito Cuffoletto che saltellando si mette a cantare tra la meraviglia dei giovani ed il dispetto della bella Joana:
-"Che belle tettine che ha la Joana,
Corpo de Diana, voi farghe l'amor."
Lo Spirito Cuffoletto si era preso il gusto di vendicare le altre donne del paese, rendendo ridicola e impacciata Joana.Lagrime di rabbia scendono dalle sue gote, mentre l'ilarità prima contenuta, poi generale, scoppia irrefrenabile dai petti di quei giovani montanari.
-"Che belle tettine che ha la Joana,
Corpo de Diana, voi farghe l'amor."
Lo Spirito Cuffoletto si era preso il gusto di vendicare le altre donne del paese, rendendo ridicola e impacciata Joana.Lagrime di rabbia scendono dalle sue gote, mentre l'ilarità prima contenuta, poi generale, scoppia irrefrenabile dai petti di quei giovani montanari.
La Storia de Ciadenazo
C'era una volta un uomo conosciuto da tutti in paese, ma il cui nome nessuno ricordava più perché tutti lo chiamavano "Ciadenazo". Un giorno d'agosto, mentre camminava lungo la Val Soccosta per recarsi a far legna, dopo una curva, scorge a terra un libro e, nonostante fosse poco amante della lettura, lo raccoglie. La sera, sulla strada del ritorno, lo leva dalla tasca e, alla luce già fioca del tramonto, comincia a sfogliarlo. Giunge al ponte di Malon, tentando di leggere qualche riga, quando dai fogli esce una voce che dice: - "Comanda!". Meravigliato ed incuriosito, prova a dire: - "Comando che da quel gregge di capre che risale quella strada, si rovesci la capra che cammina davanti al pastore". Non appena espresso questo strano comando, vede con sommo stupore che la capra designata si rovescia realmente. Ciadenazo era il più intelligente e anche il più istruito fra tutti i montanari che a Malon falciavano l'erba e riponevano il fieno nel «barco» per conto di un possidente d'Auronzo e intuì subito che c'era qualche cosa di magico in questa faccenda anzi, di diabolico. Quella notte non riesce a prendere sonno, ansioso di ripetere l'esperimento per capirne di più. All’alba sale a Malon perché c'è tanto fieno da fare e la giornata è bella ma ordina ai suoi uomini di rimanere in baita, senza far nulla. Gli operai obbediscono, non senza brontolare per l'insolito ordine. Quando il sole giunge al tramonto, stanco di sentirli reclamare, Ciadenazo si alza e va dietro il "barco" a leggere il libro. Allora s'è visto il fieno alzarsi dai prati ed entrare nel "barco" dalla porta, dagli interstizi dei travi delle pareti e anche dalle fessure delle scandole del tetto. In pochi minuti, tutto il fieno era al suo posto. Intanto il Pievano era venuto a conoscenza di questa diavoleria e mandò a chiamare Ciadenazo che si presentò con il famoso libro. Fattosi raccontare bene la storia, ordina all'uomo di bruciare il volume che certo apparteneva al diavolo. Il montanaro, che era un buon cristiano, torna a Soccosta il giorno stesso, costruisce uno steccato e accende il fuoco nel mezzo. Al primo bagliore delle fiamme, afferra il libro, strappa rabbiosamente i fogli ad uno ad uno e li getta nel mezzo, ustionandosi anche le mani. Benché intento a questo lavoro, scorge aggrappati allo steccato, una schiera di diavoli e diavoletti che urlano ed imprecano, maledicendolo e minacciando di tormentarlo fino alla morte. Ma Ciadenazo non da ascolto, bada soltanto a distruggere sino l'ultimo foglio. Poi spegne lesto il fuoco e vede diavoli e diavoletti darsi alla fuga. Lui torna contento in paese e va subito dal Pievano a raccontare la sua straordinaria avventura. Questi lo colma di lodi, gli da una particolare benedizione e Ciadenazo, soddisfatto, torna a vivere in mezzo alla sua gente da buon cristiano.
La Leggenda del Lago di Misurina
Una non troppo antica leggenda narra di Misurina, la figlia di un gigante, il re Sorapis: la bambina, molto capricciosa, pretendeva che il padre le donasse lo specchio "tuttoso" che apparteneva alla fata del monte Cristallo. La fata propose un patto: avrebbe concesso lo specchio solo se il re avesse accettato di trasformarsi in una montagna. Non appena Misurina afferrò lo specchio, re Sorapis subì l'eterna trasformazione. Solo allora la bimba si disperò e, presa da improvviso capogiro, precipitò dall'alto assieme allo specchio. Dagli occhi ormai quasi spenti di Sorapis cominciarono a scendere delle calde lacrime che formarono il lago di Misurina.
L'Orso di San Lucano
Inizia così, come tutte le favole e le leggende:
C'era una volta, tanto tempo fa, quando Auronzo era ancora un paese sconosciuto ai più, un terribile orso che, da parecchio tempo ormai, terrorizzava i pastori ed anche le genti della Val d'Ansiei. Numerosi gli assalti al bestiame tanto che, i numerosi pastori che trascorrevano il periodo del pascolo nelle nostre verdi valli, erano realmente impauriti dell'enorme animale, il quale, pur non essendo mai stato viste), lasciava lungo il suo cammino i lugubri segni della sua caccia. Le tracce lasciate sul terreno non lasciavano dubbi: l'orso era solo e mollo grande. Dopo qualche giorno dall’ultima aggressione ad un gregge di pecore sia i pastori che la popolazione Auronzana si rivolsero al Vescovo per richiedere la benedizione alla caccia che avrebbe dovuto portare alla cattura ed all'uccisione del plantigrado. Ma il Vescovo, buon uomo di chiesa e rispettoso di tutte le specie che popolano la terra, riuscì a calmare gli animi degli improvvisati cacciatori promettendo di agire di persona al fine di evitare l'uccisione dell'Orso. La mattina successiva il Vescovo, al levar del sole, si incamminò verso la valle di Palus San Marco ove presumibilmente avrebbe dovuto trovarsi l'enorme animale. Dopo alcune ore di ricerca l'uomo di Dio riuscì ad identificarne la tana e trovò l'orso intento a leccarsi una piccola ferita probabilmente dovuta all'ultimo attacco dei giorni precedenti al gregge di pecore. Quando l'animale si accorse dell'uomo che gli si avvicinava , dopo averlo osservato per qualche secondo, quasi sorpreso, scattò sulle due zampe posteriori mostrando la sua imponente mole ed emise un lungo suono che, però, non riuscì ad intimorire il Vescovo il quale, con fare deciso, si avvicinò all'Orso ed inaspettatamente lo accarezzò sul petto. L'Orso, ammaliato da tale comportamento, si abbassò a quattro zampe e, ammansito, leccò la mano al Vescovo. Grande fu la sorpresa dei pastori e delle genti Auronzane, in trepida attesa lungo le strade del paese, quando videro arrivare il Vescovo cavalcando l'orso che, a vederlo in quel momento sembrava un cavallo sgraziato ma tutt'altro che terribile. Il Vescovo venne festeggiato e l'Orso divenne il suo animale di compagnia cibandosi, da quel giorno, di erbe e bacche. Da questa leggenda nacque il detto auronzano: "Magna magna che te vies gran e te va a ciapà l'orse de San Luguan" ("Mangia, mangia che poi diventi grande e vai a catturare l’orso di San Lucano") Una statua del Vescovo, da allora eletto protettore, è ben visibile sopra l'entrata della Chiesa di San Lucano a Villapiccola intitolata per questo gesto.
C'era una volta, tanto tempo fa, quando Auronzo era ancora un paese sconosciuto ai più, un terribile orso che, da parecchio tempo ormai, terrorizzava i pastori ed anche le genti della Val d'Ansiei. Numerosi gli assalti al bestiame tanto che, i numerosi pastori che trascorrevano il periodo del pascolo nelle nostre verdi valli, erano realmente impauriti dell'enorme animale, il quale, pur non essendo mai stato viste), lasciava lungo il suo cammino i lugubri segni della sua caccia. Le tracce lasciate sul terreno non lasciavano dubbi: l'orso era solo e mollo grande. Dopo qualche giorno dall’ultima aggressione ad un gregge di pecore sia i pastori che la popolazione Auronzana si rivolsero al Vescovo per richiedere la benedizione alla caccia che avrebbe dovuto portare alla cattura ed all'uccisione del plantigrado. Ma il Vescovo, buon uomo di chiesa e rispettoso di tutte le specie che popolano la terra, riuscì a calmare gli animi degli improvvisati cacciatori promettendo di agire di persona al fine di evitare l'uccisione dell'Orso. La mattina successiva il Vescovo, al levar del sole, si incamminò verso la valle di Palus San Marco ove presumibilmente avrebbe dovuto trovarsi l'enorme animale. Dopo alcune ore di ricerca l'uomo di Dio riuscì ad identificarne la tana e trovò l'orso intento a leccarsi una piccola ferita probabilmente dovuta all'ultimo attacco dei giorni precedenti al gregge di pecore. Quando l'animale si accorse dell'uomo che gli si avvicinava , dopo averlo osservato per qualche secondo, quasi sorpreso, scattò sulle due zampe posteriori mostrando la sua imponente mole ed emise un lungo suono che, però, non riuscì ad intimorire il Vescovo il quale, con fare deciso, si avvicinò all'Orso ed inaspettatamente lo accarezzò sul petto. L'Orso, ammaliato da tale comportamento, si abbassò a quattro zampe e, ammansito, leccò la mano al Vescovo. Grande fu la sorpresa dei pastori e delle genti Auronzane, in trepida attesa lungo le strade del paese, quando videro arrivare il Vescovo cavalcando l'orso che, a vederlo in quel momento sembrava un cavallo sgraziato ma tutt'altro che terribile. Il Vescovo venne festeggiato e l'Orso divenne il suo animale di compagnia cibandosi, da quel giorno, di erbe e bacche. Da questa leggenda nacque il detto auronzano: "Magna magna che te vies gran e te va a ciapà l'orse de San Luguan" ("Mangia, mangia che poi diventi grande e vai a catturare l’orso di San Lucano") Una statua del Vescovo, da allora eletto protettore, è ben visibile sopra l'entrata della Chiesa di San Lucano a Villapiccola intitolata per questo gesto.
La Storia di Tudaio
L'unica strada che in antico collegava il Comelico al Cadere era quella che si era formata lungo le acque del Piave. Queste scorrevano fra fitti boschi di pini, larici, e abeti che avevano preso dimora proprio sopra il letto del fiume. Erano piante dai tronchi annosi e robusti che si ingegnavano a stendere le loro radici fino a stringere in un abbraccio gli enormi sassi e a trattenerli saldamente anche quando, a causa di violenti temporali, il terreno si faceva più fragile e potevano precipitare a valle. Il gigante Tudaio, uno degli ultimi Euganei che avevano trovato rifugio in questi luoghi, si era stabilito in un' ampia zona libera e soleggiata e aveva scelto una grotta naturale per farne la sua dimora. Non lontano sì stendeva un fitto bosco, popolato di camosci e caprioli che lui poteva cacciare con l'arco e le frecce. Una volta, spinto dalla sua passione, si mise ad inseguire una bestia ferita e, nella corsa oltrepassò il confine del suo territorio fino ad invadere quello del suo vecchio nemico Cornon. Continuando a scendere, venne a trovarsi in un vasto prato: il Pian di Sire e si fermò per riprendere fiato e guardarsi attorno. Fu allora che scorse, addormentata all'ombra di un grosso abete la bella Soandre, colei che aveva tanto amata a mai più rivista da quando il malvagio Cornon, suo padre aveva imposto di non incontrarla più. Sentendo la presenza di qualcuno, la bionda si destò e, riconoscendo l'uomo che aveva cosi intensamente amato, si spaventò al pensiero che egli volesse vendicarsi, ma Tudaio la rassicurò. "Non ti ho mai dimenticata, Soandre, ti ho sempre amata, anche se il rifiuto di tuo padre aveva fatto crescere in me un forte desiderio di vendetta! I due giovani, stretti l'uno all'altra fuggirono veloci nel timore di essere sorpresi assieme salirono affannati fino al regno di Tudaio. Varcato il confine, si strinsero in un lungo abbraccio credendosi ormai lontani da ogni pericolo. Ma il perfido Cornon li aveva inseguiti e, urlando di rabbia tese il suo arco e la freccia andò a colpire Soandre in pieno petto. Poi, imprecando e maledicendoli, diresse la mira verso Tudaio che cadde colpito dalla seconda freccia. Poi tornò la quiete. Nessuno passò più in quei luoghi deserti. Nessuno venne a sotterrare i due poveri amanti che giacquero a lungo sui mughi finché la montagna, a poco a poco, non fece scorrere i suoi detriti e le sue pietre a coprirli. Si formò sopra Tudaio un' alta, grossa massa amorfa che ancora oggi sporge dalla Croda.
Valentin piccolo forseni'n
Tanti e tanti anni fa ad Auronzo, nella contrada Riziò, viveva un bambino che tutti in paese chiamavano Valentin. Era povero e solo. Quando gli morì il padre, la mamma, donna bellissima ma tanto cattiva, lo aveva abbandonato nella misera baita per andare al servizio in una casa facoltosa e a convivere poi con un ricco e potente signore del luogo. Valentin viveva della carità dei paesani e girava da un casolare all'altro per potersi sfamare. Ma non sempre gli riusciva. Le buone comari vedendolo così piccolo e mingherlino, non aveva ancora sette anni, dicevano:"Valentin povero forsenìn, io te darei ben la farina, ma la galina te la magna do de man....". Un giorno una povera vedova, madre di sette bambini, che si sentiva stringere il cuore ogni volta che vedeva Valentin pallido e smunto apparire davanti alla porta di casa con quei due bellissimi occhi azzurri immensamente tristi e supplichevoli, che esprimevano tutte le pene ch'egli, vittima innocente, doveva per colpa di una madre snaturata, Io consigliò commiserandolo:" Valentin piccolo fornesìn, che a tre mes e tre dì, to pare morì e to mare, e duda a servì vedi quel bel palazzo in alto sotto le crode? Là dentro vi abita la tua mamma. Sali fin lassù e bussa a quella porta. Chissà che vendendoti, Iddio non le tocchi il cuore"! Valentin al nome della mamma non frappone indugi e subito si mette in marcia. Cammina cammina attraverso prati e boschi, lungo ripide ghiaie coi piedini nudi che sanguinano, con le vesti lacere, tutto ansioso e tremante. E' stanco. Il suo piccolo cuore non batte solo di speranza e di amore, ma anche di paura. Lo ateriscono le ombre sempre più cupe degli abeti secolari, i mille rumori appena percettibili della foresta; da un momento all'altro si crede assalito dai nani e dagli spiriti maligni che popolano la montagna. Ma il pensiero di trovare la mamma gli infonde coraggio e nuova forza. Cala la sera quando giunge davanti al maestoso palazzo di dove sente uscire una musica strana. Sembra che i malefici geni del monte si siano radunati là dentro per esprimere coi loro diabolici strumenti tutta la perfidia del mondo. Valentin tremante di freddo e di paura si avvicina a una donna che poco lungi custodiva un gregge, e le chiede della signora di quella magnifica casa, aggiungendo: “E’ mia madre". La donna che un tempo era stata lei pure a servizio nel palazzo, mossa a compassione del bimbo, si offre dì andare dalla signora, una volta sua compagna di lavoro, per avvertirla che suo figlio sta alla porta chiedendo di vederla. Lo fa sedere sul prato in mezzo agli agnellini che si mettono a leccargli i piedi insanguinanti, le mani e il visetto. Trepidante di speranza e d'attesa Valentin guarda estatico al di là della valle le crode che, fiammeggianti nell'ora del tramonto, sembrano dirgli:" Valentin piccolo farnesìn, abbi coraggio". Mai fino allora egli era salito così in alto, lassù le case del paese appaiono piccole e il torrente un filo d'argento. Ma ecco aprirsi con gran rumore il portone del palazzo e uscire una donna meravigliosa, bellissima anche se presa dall'ira e dal dispetto per essere stata disturbata nel cuore della festa. Con sdegno grida al bambino:"Chi sei tu che osi farti passare per mio figlio? lo no son mare né di fioi né di fie, che il mio cor sia vie...." E rivolgendosi ai servi ordina loro: " Uccidete quel fanciullo e recatemi il suo cuore" Detto questo sparisce e il portone si chiude mentre la musica aumenta il diabolico ritmo. Valentin pietrificato vede due servi avvicinarsi a lui. Istintivamente si inginocchia congiungendo le mani in atto di preghiera. Gli uomini hanno compassione del misero fanciullo o lo invitano a fuggire dicendo che alla snaturata padrona porteranno il cuore di un agnello. Il povero Valentin desolato, piangente, scende a notte dalla montagna e torna nella sua squallida baita. Si butta sul giaciglio e piano piano, come un lumicino alle prime luci dell'alba, si spegne. La buon vedova che l'aveva consigliato di picchiare al portone del grande palazzo, non vedendolo tornare va a cercarlo nella baita. Con somma meraviglia le appare immobile sul giaciglio, il piccolo Valentin, bianco come la neve e bello come un angelo. Ai lati sei grossi ceri ardenti, sorretti da mani invisibili, illuminano il morticino, sul cui capo ricciuto brilla l'aureola della sanità e del martirio. Tutto il vicinato accorre a inginocchiarsi e a rendere omaggio al prodigioso fanciullo. La domenica seguente, mentre gli auronzani nella piccola piazza davanti alla chiesa attendevano che la campana annunciasse l'inizio della Messa grande, ecco apparire, elegantissima nelle sue vesti di broccato e oro, con tutto il seguito, la snaturata madre di Valentin. Ella scende dalla carrozza a sale sprezzante e superba la gradinata della chiesa. Ma d'un tratto, proprio dinanzi alla porta maggiore, si aprono le millenaria pietre e dai loro sotterranei, tra fiamme e rumore di catene, esce Belzebù in persona che afferra la donna e se la porta all'inferno. Ancor oggi le nonne auronzane raccontano ai nipotini la dolorosa e commovente storia di Valentin, nel giorno dedicato, il 14 febbraio quando accompagnano i piccoli in pellegrinaggio al capitello del santo, eretto nella borgata Riziò sulle rive dell’Ansiei a perenne venerazione perché San Valentin povero farnesìn Che a tre mes e tre dì so pare morì e so mare e duda a servì li protegga contro la cattiveria e l'ingiustizia del mondo e li perseveri del brutto male che è la paura.